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L’alimurgia, l’arte del raccogliere e consumare piante spontanee commestibili

L’alimurgia, pratica antica che precede l’agricoltura, ci fa scoprire le piante spontanee e il loro potere nutrizionale

Gli alimenti vegetali rappresentano una fonte nutrizionale irrinunciabile, che apporta macronutrienti come carboidrati, proteine e grassi ma anche vitamine e sali minerali. Per questo motivo l’uomo, nella sua storia evolutiva, ha sempre usufruito dei doni della natura: si pensa che la raccolta e la conservazione degli alimenti siano stati lo stimolo trainante per l’organizzazione delle città e delle dinamiche sociali. Questo perché, se in principio buona parte dell’attività dell’essere umano era destinata a reperire cibo, come succede per gli altri animali, la possibilità di conservare, trasformare e ottimizzare la raccolta ha portato alla necessità di strutture sociali per la divisione dei compiti e alla formazione delle città per la conservazione del cibo.

In principio era l’alimurgia

Per alimurgia si intende la pratica di raccogliere e consumare piante spontanee commestibili. Questa era comune prima dell’avvento dell’agricoltura, oggi l’ottimizzazione della produzione agricola permette alte rese di derrate alimentari e offre ampio spazio per attività collaterali alla raccolta del cibo. Tuttavia, lo sviluppo dell’agricoltura si è focalizzato sul volume di produzione e sulla resa nutrizionale delle piante coltivate, attraverso l’addomesticamento di specie selvatiche spontanee.

Il risultato è stato sicuramente vantaggioso ed è possibile notare come le specie coltivate si siano molto allontanate dai loro progenitori. L’alimurgia, tuttavia, non è scomparsa e nella storia dell’uomo è frequentemente emersa in momenti cruciali. Per esempio, nei periodi di carestia non era raro che le popolazioni italiane utilizzassero erbe spontanee a scopo alimentare.

È stato documentato che i soldati americani approdati sul territorio italiano avessero un manuale di riconoscimento delle piante spontanee per usufruire di fonti alimentari d’emergenza. Anche oggi, nonostante la disponibilità di cibo, in molte località italiane la tradizione dell’alimurgia mediante raccolta di piante come tarassaco, portulaca, asparagi e bieta selvatica, è ben radicata.

È interessante notare che in alcune provincie si usa setacciare i campi per la raccolta di piante specifiche mentre in altre località la raccolta è mista e ci si riferisce genericamente alle piante alimurgiche come minestra selvatica. Alcune di queste piante spontanee sono molto amare e necessitano di lunga cottura in abbondante acqua, mentre altre possono essere consumate crude in insalata. Anche l’individuazione delle specie alimurgiche è caratteristica della località, con nomi differenti per la medesima specie, se ci spostiamo di regione o anche solo di comune.

L’evoluzione del cibo

Non è difficile notare come l’agricoltura abbia cambiato l’apparenza degli alimenti. Basti pensare alla pannocchia di granturco a cui siamo abituati, ricca di grani turgidi e dolci, in contrapposizione con il progenitore teosinte, formato da un fuscello esile con qualche grano attaccato. Allo stesso modo, le banane che normalmente consumiamo sono ricche di polpa e senza semi, la banana selvatica invece è composta da una polpa densa di semi al suo interno. La carota, succosa e colorata, sarebbe solo una struttura di riserva legnosa e dal colore marrone se non avessimo selezionato varianti sempre più utili per il consumo umano.

Dall’arte possiamo apprendere come l’anguria, con molta polpa e pochi semi, fosse in realtà molto diversa nella rappresentazione che possiamo notare in quadri di epoca barocca. Si pensa inoltre che lo stesso pomodoro potesse avere in passato un colore giallo (come suggerisce il nome), mutato a seguito di una selezione per scopi commerciali, nella versione rossa che ben conosciamo.

Quindi, l’agricoltura e l’addomesticamento hanno consentito una migliore coltivabilità, efficienza di raccolta e maggiore resa nutrizionale. La stessa selezione ha permesso di ridurre la presenza di sostanze potenzialmente nocive, come la solanina di pomodori, patate e melanzane, i cianuri di semi e noci e alcune neurotossine che, in grandi quantità, potrebbero essere dannose.

Le piante spontanee e il loro potere nutrizionale

La selezione e l’addomesticamento delle piante di interesse alimentare hanno favorito una maggiore sicurezza, anche se non possiamo sottovalutare l’influenza dell’interesse commerciale sul risultato finale. Per massimizzare dimensioni ed estetica, abbiamo spesso ottenuto un impoverimento dal punto di vista della palatabilità e della quantità di sostanze vegetali benefiche.

Per esempio, le insalate commerciali a cui siamo abituati tendono ad avere un sapore neutro e una composizione molto acquosa. Invece, molte piante spontanee preservano il loro potere nutrizionale sottoforma di fitochimici. Nell’etnobotanica (materia che si occupa della caratterizzazione di specie botaniche di interesse popolare), si è spesso evidenziato il potere benefico di molte erbe amare spontanee per la salute del fegato.

Alcune piante spontanee mantengono un contenuto rilevante di acidi grassi essenziali. Anche il contenuto in vitamine e sali minerali è frequentemente molto più elevato nelle piante spontanee rispetto a quelle coltivate, poiché la crescita e la raccolta non devono rispondere a esigenze commerciali e le piante sono libere di completare il loro naturale ciclo di crescita.

In alcuni articoli scientifici si ipotizza che l’effetto positivo sulla salute della dieta mediterranea fosse, almeno in parte, derivato dal consumo di piante spontanee. Queste, con il loro alto contenuto di acidi grassi polinsaturi, avrebbero apportato effetti benefici anche presso le popolazioni del Mediterraneo non stanziali sulle coste e impossibilitate a usufruire di cibi di origine marina.

È molto più probabile che il consumo di pesce fosse una prerogativa delle località di mare, quindi è plausibile che le popolazioni dell’entroterra abbiano beneficiato dei polinsaturi derivati dal consistente consumo di erbe spontanee. Da non sottovalutare che le piante spontanee sono in grado di fornire maggiori concentrazioni utili di calcio, fibre, caroteni e vitamina A, rispetto alle specie coltivate.

Alcuni esempi di piante alimurgiche

Le piante alimurgiche sono numerose e comprendono diverse specie di interesse nutrizionale, non soltanto erbe ma anche frutti.

La portulaca, dalle foglie carnose e ricche di vitamina C, è spesso consumata cruda in insalata. Tra le piante spontanee è una di quelle con il più alto contenuto di acidi grassi polinsaturi omega 3.

Altre specie come il tarassaco, l’ortica e il cardo mariano sono riconosciute per il loro effetto benefico sul fegato ma devono essere sbollentate prima di cibarsene per eliminare parte del sapore amaro. Sembrerebbe comunque che l’amarezza sia indice della presenza delle suddette sostanze benefiche.

Di alcune piante spontanee, come la borragine, la calendula, la malva e il mirto, sono edibili anche i fiori utilizzati in insalate e per realizzare guarnizioni d’effetto (fitoalimurgia). Di altre, invece, si consumano i frutti, come nel caso delle giuggiole, delle more, dei corbezzoli e delle pere selvatiche. Di solito si tratta di alimenti dal gusto molto intenso dovuto all’alto contenuto di antiossidanti.

Alcune piante spontanee possono essere un’alternativa ad alimenti più comuni: le gemme del tarassaco possono essere utilizzate sotto sale in sostituzione ai capperi oppure la parte carnosa del cardo può essere conservata sott’olio come carciofini.

cucinare l'ortica
carota selvatica

Come per molte specie coltivate, anche nel caso delle piante spontanee esistono delle radici commestibili: si pensi al rafano, alla scorzonera, alla bellavedova e alla pastinaca. Pur essendo spontanee, alcune vengono tradizionalmente coltivate in località italiane, ma senza l’ampia selezione dei più comuni tuberi come carote, patate, manioca e rape.

La cicerchia è considerata una pianta spontanea, anche se nel tempo ha subìto un processo di addomesticazione, per quanto molto limitato rispetto ad altri legumi. In passato, il suo consumo in eccesso è stato correlato a intossicazione per via di una neurotossina in essa contenuta; una condizione che oggi è molto difficile si ripeta poiché la commercializzazione avviene con cultivar a bassa tossicità.

Minestra selvatica

Tra le erbe spontanee di campo troviamo numerose specie commestibili che compongono le misticanze e le minestre selvatiche della tradizione popolare. Possono essere comunque usate anche come aromi, insalate, contorni, frittate e soffritti. Spesso fanno parte della famiglia delle liliacee e delle composite ma anche delle crucifere come bacchetta di re, barba di becco, barbatella, bislingua, caccialepre, carlina, cascellore, cavolicello, costolina, crespigno, guado, porraccio, pratolina, pungitopo, rapastrello, stigoli, tamaro, trinciatella, vitalba.

Come già accennato, alcune presentano svariati nomi popolari ed è difficile che vengano riunite in una terminologia univoca. È il caso, per esempio, della salsapariglia, conosciuta anche come Smilace, Strappabrache, Stracciacappe, Stracciabrache, Rovo-cervone, Rovo-cerrone, Salsa paesana, Salsa siciliana, Edera spinosa, Ellera spinosa o Erba del magnano.

È molto curioso notare che alcune piante spontanee utilizzate come minestre selvatiche sono diffuse e utilizzate in modo trasversale. Altre specie, pur essendo comuni sono considerate di grande interesse alimentare in alcune località ma ignorate in altre (dove non hanno un nome dialettale).

La conservazione delle pratiche alimurgiche può avere risvolti nutrizionali interessanti e anche la preservazione culturale regionale merita particolare attenzione per non incorrere nel rischio che svanisca nell’arco di poche generazioni.

Dott. Gianluca Rizzo, Biologo Nutrizionista, Dottorato in biologia e biotecnologie cellulari

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Edito da

Gianluca Rizzo, laureato in Scienze Biologiche, ha frequentato per dieci anni i laboratori di ricerca universitaria in biologia molecolare, biologia cellulare e biochimica a Messina e a Roma. Dopo un Dottorato di Ricerca e un Post-Doc su malattie neurodegenerative correlate all’invecchiamento, ha deciso di proseguire il suo percorso nel settore della Nutrizione, applicando un approccio basato sull’evidenza, sviluppato durante il percorso di ricerca. Ha frequentato un Master in Integratori Alimentari e un perfezionamento Universitario in Nutraceutica. Attualmente si occupa di nutrizione come libero professionista, mantenendo le attività accademiche come autore di pubblicazioni internazionali, referee per riviste scientifiche e docente in Master e seminari universitari.

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