Approfondiamo con Barbara Nappini, presidente di Slow Food, il tema della biodiversità agroalimentare e i suoi significati
Biodiversità agroalimentare, che cosa significa? È il tema che abbiamo scelto di approfondire insieme alla presidente di Slow Food Italia Barbara Nappini, dopo l’interessante riflessione sulle crisi attuali uscita nel numero di giugno di Terra Nuova.
Barbara, nel tuo articolo parli di come oggi si affronta quella che tu definisci 4 grandi crisi: ambientale, sociale, climatica, migratoria. Di questo occupa Slow Food, ti occupi tu in prima persona, ma anche e sopratutto avete a cuore la valorizzazione e la diffusione della biodiversità agroalimentare.
Biodiversità agroalimentare, cosa significa?
Partiamo dalle basi. Cosa significa biodiversità agroalimentare?
La biodiversità in generale è la variabilità genetica del vivente. In sostanza è la nostra capacità, capacità di tutti gli esseri viventi, di adattarsi ai cambiamenti attingendo al grande numero di geni di cui ognuno di noi è portatore. Questo è una garanzia di sopravvivenza.
Di fatto la biodiversità è garanzia di sopravvivenza. Il fatto di avere una grande biodiversità, in particolare nell’alimentazione, quindi nel settore agroalimentare, ci permette di poter adattare anche la nostra alimentazione al cambiamento.
Per quanto riguarda la scelta delle colture vegetali o delle razze animali da allevare è un fatto che nei 10000 anni di agricoltura i contadini di tutto il mondo hanno selezionato, coltivato e allevato la grande biodiversità che poteva garantire la base dell’alimentazione mondiale. Questo è un fatto.
La biodiversità, e parlo di quella appunto agricola, quindi la biodiversità agroalimentare che ovviamente non è quella naturale della foresta Amazzonia, ma proprio quella prodotta in 10000 anni di pratiche agricole, è effettivamente quella che all’inizio del Novecento era già pronta per garantire l’alimentazione a tutto il pianeta. Questo è un fatto. Dopodiché è successo qualcosa dopo, sono intervenuti altri fattori.
Il valore del cibo è nel legame con il territorio
Ringraziamo e dobbiamo essere consapevoli di questa biodiversità perché penso che sia biodiversità agroalimentare ma anche culturale, territoriale, ci permette di portare avanti le radici del nostro luogo in cui viviamo di ogni territorio.
Per quanto concerne la nostra prospettiva, noi siamo convinti che il valore del cibo, non il costo ma il valore del cibo, risieda proprio nel suo legame con il territorio e con le comunità che quel territorio abitano. Quindi questo legame che è anche connesso alla variabilità genetica, quindi alla capacità di adattarsi, è qualcosa di vivo, è un legame che vive con le persone, vive con gli ecosistemi. Ed è in quello che si esprime un portato culturale del cibo.
Il cibo ovviamente per tutti noi non è soltanto un carburante per poter svolgere le funzioni che la vita ci richiede, ma è qualcosa di più. Il convivio, cioè il momento in cui tante persone si raccolgono intorno a un tavolo e condividono il pasto, condividono degli alimenti, è un momento unico. Non c’è un altro momento in cui si crea quella stessa energia. Tanto è vero che nella cultura di tutti i popoli a tutte le latitudini, in realtà il convivio è il luogo in cui si sanciscono unioni, si litiga, si fa la pace, si chiariscono delle situazioni. Oppure si praticano anche delle rotture, perché è veramente un momento in cui si crea un’energia particolare.
Però ad un certo punto l’ingranaggio si è rotto, è successo qualcosa negli ultimi anni. Forse sono stati creati degli ostacoli a questa biodiversità agroalimentare.
Io vorrei ripercorrere alcune tappe perché è importante. Abbiamo detto che all’inizio del 900 in 10000 anni i contadini del mondo avevano già selezionato e appunto coltivato tutte le varietà vegetali che potevano essere la base della nostra alimentazione globale, quindi a tutte le latitudini. Poi ci sono state le due guerre. Nel secondo dopoguerra nasce la necessità di da una parte aumentare, massimizzare anzi, la produzione; ma dall’altra parte anche di convertire l’industria bellica. Questo lo dico perché capire un certo fenomeno, una situazione, che genesi abbia, ci aiuta a capire il fenomeno.
Quindi diciamo che il fatto che il trattore assomiglia al carro armato non è casuale. Così come molte sostanze che appunto erano utilizzate nell’industria bellica sono state riutilizzate per fungere da fertilizzanti di sintesi o da pesticidi di sintesi.
La cornice culturale in cui questo avviene è quello della rivoluzione verde. La grande promessa della rivoluzione verde è che avrebbe annientato la fame nel mondo, obiettivo, oggi lo possiamo dire, non centrato, tragicamente fallito.
Però è importante ripercorre almeno un altro paio di tappe. Grazie alla rivoluzione verde, dagli anni 50 al 85 succede che le rese cerealicole aumentano del 250%. È tantissimo. Se andiamo a guardare però l’aumento degli input energetici per ottenere questa resa, sono aumentati del 5000%. Tutto questo porta alla massimizzazione della produzione. Tanto è vero che negli anni 80 per la prima volta accade che gli esseri umani hanno un problema: hanno troppo cibo, hanno prodotto troppo cibo. Quindi in alcuni casi questo significa doverlo stoccare, in altri casi significa doverlo distruggere.
E poi è importante un’altra tappa per capire i sistemi alimentari del 2023. Una tappa che vede negli anni 90 inserire il cibo nei borsini dei mercati finanziari. Quindi la Goldman Sachs stabilisce dei prezzi per grandi produzioni (grano, riso, mais) e da quel momento si sancisce che il cibo viene prodotto per essere venduto.
Il cibo da cibo diventa merce.
È importante sapere queste cose perché ci permettono di fare un’analisi onesta e capire anche certi paradossi che tutt’oggi si verificano sotto i nostri occhi soltanto nel sistema alimentare.
Ed essere consapevoli di quello che sta avvenendo e di quello che poi avverrà probabilmente in futuro. Come dicevi: oggi possiamo analizzare e dare un risultato a quella rivoluzione verde che c’è stata dopo la guerra e possiamo dire che è fallita. Ora ci stanno proponendo un’altra rivoluzione Green, ecologica. Siamo consapevoli.
Sicuramente per fare delle scelte consapevoli è necessario avere strumenti ed essere informati. Poi le scelte ognuno in autonomia le fa secondo coscienza. Però è molto importante avere tutte le informazioni. Spesso la narrazione che deve vendere un certo tipo di idea omette una parte dell’analisi. Quindi per me è sempre molto importante rimettere tutto al proprio posto.
Quindi ripartiamo da lì: quando ad un certo punto il cibo diventa merce.
E abbiamo una produzione effettivamente massificata sebbene orientata al massimo profitto. Questo è legato appunto all’ultima tappa quella degli anni 90. Ma quello che succede ancora oggi nel 2023 è che sappiamo che la fame non è sconfitta. Quasi un miliardo di persone non ha regolare accesso al cibo. È una cosa terribile, è fastidiosa da sentir dire, è dolorosa ma vera.
Allo stesso tempo però, è questo la rende ancora più tragica, noi sappiamo che sprechiamo un terzo del cibo prodotto globalmente. Lo spreco non è trattato come u’anomalia. Nel senso che a mio avviso ogni giorno alla televisione dovrebbero dire che speriamo un terzo del cibo prodotto sul pianeta e contestualmente è quasi un miliardo di persone non riesce a nutrirsi in maniera regolare.


Queste due cose sono legate, soprattutto perché sappiamo che con il terzo del cibo sprecato sfameremo quattro volte, non una ma 4 volte, le persone che non hanno regolare accesso al cibo. Questo ci dice che oggi si muore di fame non per scarsità di cibo, ma per povertà. È importante dirselo perché questo cambia molto la prospettiva.
È drammatico che nel 2023 siamo ancora così. E intanto noi ci ammaliamo sempre di più da eccesso di cibo, da cibo manipolato, da cibo non più quello della naturale e sana biodiversità agroalimentare del nostro territorio. E questo è ancora più drammatico.
Questo risponde ad esigenze di produzione industriale. L’industria sappiamo che ha alcune caratteristiche che anche nell’agroindustria si ripetono. Sono un’agricoltura estensiva (che si estende per molti ettari), una forte meccanizzazione (perché il massimo profitto è dato dal minore forza lavoro impiegata, massima meccanizzazione), è data da un ingente utilizzo di input esterni (sia fertilizzanti, che farmaci),ed è data da un’omologazione dell’offerta.
Questo serve ovviamente perché in un’economia di scala, se io produco grandi quantitativi di una sola coltura, che magari ho selezionato perché non tanto è la più buona dal punto di vista organolettico o la più tipica di quella zona, ma magari l’ho selezionata perché si adatta molto bene a lunghi trasporti il camion. Oppure si adatta molto bene a essere osservata nel frigo per diverse settimane. Sono i criteri dell’ industria.
Per avere un’idea sensata, secondo me, secondo Slow Food, di quella che è un’ipotesi di conversione ecologica, quindi un percorso verso la sostenibilità, è inscindibile da un sistema (io parlo per quello alimentare, ma vorrei dire un sistema di tutti i tipi – sociale, finanziario, economico) più equo. Cioè l’equità, il fatto che una conversione ecologica non possa essere scissa da una conversione sociale che vada proprio a toccare quelle differenze. Sappiamo che il nord del mondo muore, si ammala per una malnutrizione legata ad essere troppo nutriti, nutriti con alimenti troppo processati o con troppe proteine animali. Il sud del mondo continua a morire di fame.
Quindi il vostro suggerimento è proprio quello di una politica più equa e mi sembra di capire anche un ritorno alla natura, alla nostra territorialità, alla nostra identità culturale e alimentare.
Sono d’accordo con quello che hai detto, ma vorrei soltanto togliere la parola “ritorno” perché troppo facilmente questo tipo di ragionamento viene ascritto ad un passatismo, ad una nostalgia per il passato. Che non è. Non è quello. È che siamo talmente calati nel presente, che sappiamo che per garantirci un futuro a noi, ma soprattutto ai nostri bambini, abbiamo bisogno di curarlo molto il presente. E non è tanto guardando indietro, ma è guardando avanti che abbiamo bisogno di risposte che stiano nella natura. Perché è proprio il modello che ha voluto separare il vivente, gli esseri umani, dalla natura quello che ci ha portato alla crisi attuale. È quel modello lì.
E allora quella separazione con la natura che abbiamo visto che non ci fa bene. Non possiamo pensare di dare risposte alla crisi che si è originata in quel modo, perpetrando lo stesso modello, quindi cercando e dandoci risposte solo tecnologico-industriali. Abbiamo bisogno di integrare la nostra vita con la natura in maniera rispettosa, guardandola per quello che è e sapendo che noi non dobbiamo controllare la natura o gestirla, ma ne siamo parte. La natura ci include.
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