Mai l’immagine del cacciatore è stata così sottilmente e brillantemente dileggiata. Un invito alla scoperta dei “volatili” di Biagio Bagini
Tanto è stato detto sulla malefica indole del cacciatore e sul loro disastroso effetto sulla natura e sull’educazione dei giovani. Mai però erano stati espressi tali concetti con così tagliente e brillante ironia come in questo libro di narrativa di Biagio Bagini. Da leggere assolutamente ai bambini di tutte le età.
Mi sono preso qualche libertà, è vero. Scrivendo per bambini hai l’imperativo morale di stare al di qua di certi paletti. Ma qui si tratta di legittima difesa… della quaglia. È il cacciatore che se le cerca.
E poi, chi non vuole prendere le parti di un animaletto di pochi grammi, che pesa quanto il colpo di un fucile? Lo scontro è impari, ingiusto, va ritarato.
Se i bambini arrivano a leggere, magari con i genitori, questo libro, capiscono subito come deve andare a finire. Inutile andare troppo per il sottile. Nei cartoni si usa la mano pesante con i cattivi. Quando c’è un piccolo da salvare non c’è incertezza che tenga, e neppure tanto da spiegare.
E comunque, se i piccoli non si accontentano della storia di come le quaglie sfuggano ai cacciatori e di come compiano la loro ”piccola vendetta lombarda”, oppure di come i canarini mi abbiano parlato da bambino, o di come io parli a loro usando la lingua in maniera strana…
Se questo non basta, consiglio di andare a leggere, sempre sull’argomento caccia, l’ironia magistrale del capitolo due di “Tartarino di Tarascona” di Daudet. È intitolato “I cacciatori di berretti”, e descrive in modo esilarante la questione dello spirito del cacciatore.
Caro Biagio, il tuo libro “Quagliare”
è da godersi volando leggeri sulla narrazione… oppure occorre posarsi su ogni dove, valutare i venti per poi decollare di nuovo in ricognizione?
I voli sono individuali (a meno che tu legga in stormo), e variano a seconda delle dotazioni personali. I miei sono discontinui, brevi e interrotti come i pensieri, si perdono e non so bene sempre dove mi stiano portando. È un gioco che la scrittura ti concede, usando le sue ali.
Le parole hanno una potenza e una varietà di direzioni che prima di partire non riesco neanche a immaginare. Ma se ti lasci andare, prendi correnti (letterarie), trovi nuovi approdi (magari stilistici), e individui obbiettivi che solo il viaggio ti può rivelare.
Davvero, non è un modo di dire: io mi affido alla rete delle parole, alla cultura della lingua, alle sue infinte ramificazioni, per farmi portare altrove, accettando il rischio del gioco, e anche del banale, per arrivare scoprire che sotto la parola c’è un uovo, buono. Di chi? Da scoprire.
Ad esempio, partiamo dal titolo: quagliare. È un auspicio? Un augurio? Una richiesta aziendale? Sembrerebbe conferire al libro capacità e doti di manuale per risolvere tutto della vita.
Invece forse è il suo contrario: forse il libro parla delle “quagliare”, che sono reti verticali intorno a un sistema di altre reti concentriche dove gli uccelli si infilano e non possono più uscire. È fuori legge, almeno questa.
Sei tu o è tutta l’umanità a fare solo dei piccoli balzi piuttosto che volare agevolmente in cielo?
E poi, sono balzi in avanti o indietro?
Ci vorrebbe un controllore di volo generale per poter dire qualcosa di certo. Qualcuno che sappia dire: tu stai, fermo, decolla tu, occhio a non osare troppo, tu torna indietro. Ma i cieli sembrano liberi e il quadro sempre complesso, per fortuna.
Però anche nel caos ci si può organizzare, entrare a far parte di stormi che si muovono nella giusta direzione. Anche solo per un po’. Per quel che serve. Anche solo per far numero e cercare di cambiare un po’ le rotte dei cieli. Abbiamo slot a disposizione.
I “canarini da garage”, immagino non siano una razza naturale, a quale scopo sono stati creati?
Eppure esistevano, li ho visti con i miei occhi. Per primo li ha sognati mio padre con i suoi, collocandoli vicino a una bocca di lupo che serviva sufficiente luce, per vivere al riparo e stare bene. Certo, lo stato naturale era lontano migliaia di miglia di anni, ma avevano comunque raggiunto uno status confortante, e cantavano il giusto.
Io li osservavo da bambino, studiando tutta la cura che ci metteva mio papà per seguirli; diventava una mamma paterna infittendo ancora di più il mistero. Moltiplicando lo spazio, addizionando le gabbiette riusciva persino a prospettare a loro, così come ha fatto per la famiglia, un’idea di futuro, di benessere, e di miglioramento sociale.
Loro rispondevano alla loro maniera facendo uova e pulcini implumi, cantando e scolpendo l’osso di seppia, e tritando dalle trecce la piantaggine. Non hanno mai mostrato nemmeno voglia di scappare.
Il cacciatore visto come un rapace.
Ma il rapace caccia per sfamarsi, il cacciatore invece perché caccia? Addirittura.. “arriva a fare delle rate per pagarsi un fucile”…
Io immagino che sia rapace nello spirito, cioè portato a prendere con la forza, a strappar via con la violenza. E credo che questo gusto per la rapacità gli monti dentro, sia una rapacità al quadrato, che diventa potenza in modo matematico quando intercetta un simile (li riconosce da berretto e stivale) o peggio ancora, una congrega di simili.
A differenza degli uccelli, che hanno il mirino incorporato, il cacciatore è un poveruomo che necessita di un’estensione, di una protesi per sviluppare la propria rapacità venatoria. E quando non è in vena, sbrocca, consulta i cataloghi e parla fitto con gli armaioli, nel segreto dei loro negozi.
Povero, è poco dotato naturalmente, non ha becco né artiglio. Forse invidia i supercattivi della Marvel, perché anche lui vorrebbe tirare giù un Batman, e magari spara ai voli di Easy Jet, e perfino agli angeli custodi, che volano più bassi e ci vorrebbe meno che prendere gli storni. Per questo loro non si fan vedere volentieri, temo.
Il cacciatore…“ha spiegato al mondo quanto è salutare uscire la mattina presto per cacciare e rivendicato l’amore sincero, suo e dei suoi amici, per la natura.”
A chi invece fa tanto bene la caccia? Lo puoi dire, questa volta, senza volarci intorno? C’è chi sostiene che l’esistere della caccia permetta il traffico di armi verso le aree in guerra in varie parti del mondo.
“Mi piace l’odore del Napalm al mattino” dice il colonnello Kilgore in Apocalypse Now. A me piace l’odore di pizza bruciacchiata. Magari al mio naso non fanno nemmeno tanta differenza.
Ma se il mondo ragiona a naso, dobbiamo continuare a mettere in conto troppa ingiustizia, il che non ci fa sperare più in nulla. Non stento a credere che la caccia sia un’estensione della guerra, con una correlazione economica sia che concreta che di fondo.
Di certo contribuisce alla rapacità verso il mondo, alla sottrazione di leggerezza e di bellezza, cancellando lo spirito e riducendo i corpi a materia pesante. Non è tutto molto più triste?
“Chi non ha notato il cinguettio ostinato di tanti canarini avvinghiati alla propria opera di non-finito?”
Biagio, di chi parli qui? Non sai quanto mi sono sentito rappresentato in questa frase, e quasi commosso.
Volevo dire che il non-finito non era solo di Michelangelo o Donatello. È dentro il sogno che continua, è nel cercare di migliorare. Anche in quello che non riusciamo a fare.
È il canarino che chiama forte, come se dall’osso di seppia non dovesse venire una poesia ma un corpo, e forse ha paura che la cosa succeda, che si animi un Pitagora di calcio e magari lo ammonisca.
Così il canarino aspetta, cinguetta e resta un passo indietro, desidera e non affonda, ma chiama. Non so, ma mi sembra sia una sensazione che credo tutti abbiano declinato nella vita.
“Ma neanche in primavera il cacciatore era uscito, perché una volta c’era il cugino con la famiglia, un’altra non se la sentiva.
E poi la partita, la prima comunione, le questioni sul lavoro, l’influenzina tardiva. «Attenzione, c’è in giro un po’ di polmonite.» Era stato ancora a casa, cautelativamente, seguendo il dottore che lo seguiva.”
Seguire il dottore che ti segue (bellissima, me la rivendo) è come dire il cane che si morde la coda. Biagio, perché il sapiens sapiens non riesce a interrompere questo cerchio?
Non lo so, forse si pretende troppo da noi uomini. Siamo umani perché incompleti, tanto più umani quanto più incapaci. Il cacciatore è un bell’esemplare di incapacità a tirarsi fuori.
È che si è ficcato dentro un circolo vizioso, c’ha le rate del fucile, c’ha le domeniche con l’amichetto, e tutti i racconti sulla selvaggina, e i record da inventare, le palle da raccontarsi e la moglie a casa che se torna storto gli fa il mazzo.
Scherzo, mi piace vessarlo, questo povero cacciatore immaginato, perché trovo che la scrittura sia un’arma a salve, fa rumore (quando riesce), non fa morti (salvo rari casi, tipo nei gialli, ad esempio) e la puoi usare a tuo piacimento, stabilendo a tua discrezione la fine da riservare ai tuoi personaggi.
Questo cane che si morde la coda si è trasformato in uno sparatore che si è sparato in un piede. Che gli è diventato del colore del piccione. Trovo sia sempre un finale soddisfacente, anche se un po’ scontato.


“Il cacciatore allora, molto nervoso per via di quel treno di tordi, fagiani, quaglie e beccacce che gli erano scappati via, non faceva che sparare cazzate e mostrare segni d’insofferenza”.
Lo “sparare” è quindi una forma di comunicazione?
Una forma eruttiva per tirare fuori in modo istantaneo un po’ delle cose che bollono dentro. Il cacciatore probabilmente benedice e adora i proiettili, che oltre a costargli un occhio della testa (e un piede, alla fine del racconto) riescono a mantenere più compattezza delle sue parole, che altrimenti si spiaccicherebbero alla rinfusa sui marciapiedi del mondo, senza fare vittime ma provocando qualche fastidio e niente più.
Per rifarsi il cacciatore si mette a “Progettare un autunno stragistico”.
Certo, la frustrazione accumulata va sfogata in qualche modo…
Quando sta troppo fermo la performance lo chiama. È la dimensione della grande rivalsa, della rimonta di una vasta operazione paramilitare che incomincia a popolare i suoi sogni.
Lo visita, lo stuzzica, lo scrolla dal torpore del barbera, lo prende per lo stomaco e lo fa urlare dentro, e reclamare carne rossa da bruciare, mentre lo stomaco rimpiange il maalox perduto e gli fa nascere dentro una rivendicazione di roghi alle streghe vegane, magari incorniciate come fagiane da fila di uccelli già spiumati e, lepri incastonate dentro cinghiali da centocinquanta chili. Trionfo della caccia!
“Sono usciti fuori da dentro”. Sembra che tu voglia metter in risalto l’arguzia del cacciatore…
Il cacciatore è forte del proprio istinto, che è un istinto bestiale assicura in giro ad adepti e ammiratori (ma ce ne ha per davvero?). Così quando apre l’armadio dove ha riposto l’arma e vede il volo della farfallina (con prontezza derivata dal mestiere), capisce senza che nessuno glie lo debba spiegare, che prima era dentro ed ora è fuori.
E associa quel volo stentato a quello del fagiano liberato nel campo, preda a cui si dà il vantaggio (perché ci vuole una certa sportività, anzi, lo esige la nobiltà della pratica. Mah).
È arguto il cacciatore e capisce subito che i tarli sono i veri nemici; non i vegani, non i cinghiali. Quegli esserini a cui non si riuscirà mai a sparare perché non esistono fucilini così piccoli, e un po’ si sente messo in scacco dalla piccolezza infinitesima del mondo.
Ma sono tarli che durano niente, che fanno solo un po’ di segatura (della mente) e che volano via soffiando. Ma avvelenano i discorsi, che sono la disgrazia del mondo (per loro).
“Come sarebbe bello catturarli, o almeno sparargli, al limite spappolarli all’albero, tanto per fare.”
Tanto per fare è come dire “dato che non ho altro da fare”. Mi fa pensare a quando si riesce a togliere i bambini dalle strade portandoli in palestra o a scuola di musica…
“A ogni ordine la propria classe. I primati sono rimasti un po’ maneschi.” È una digressione sulle abitudini della nostra categoria, che usiamo le mani per schiacciare, strappare, colpire quando sarebbero capaci di accarezzare, rendere, aggiungere, col disegno, la scrittura, il suonare. Ma anche col lavoro delle mani, la conta delle dita, perfino il digitare sul telefono.
Come faremmo a digitare senza tregua, senza il nostro pollice opponibile? L’infinità delle declinazioni ci potrebbe tenere alla larga dall’uso improprio delle mani. Soprattutto dall’esercizio del potere del grande sul piccolo, che sia cinciallegra, quaglia o piccione.
“Quelli che invece han saputo catturare le melodie e le hanno decodificate in suoni disegnati dovevano essere almeno dei Sapiens tripli.
Ci vuole una testa particolare per prendere la nota di un’allodola e dire che è come un segno nero tra cinque righe parallele.” Decisamente sei un poeta Biagio. Ora però fammi capire come si fa per diventare Sapiens tripli. Io il triplo lo provo sul trampolino, ma nella vita?
La meraviglia degli uomini è un altro capolavoro della natura. È già un salto triplo quello che ci succede, quello che oggi siamo. Ci sono voluti centinaia di anni di studio. Ed epoche intere di prove, ere di tentativi ma alla fine l’uomo ha prodotto la propria musica.
Guardando agli uccelli, naturalmente, maestri che ripetono controvoglia, che non cantano a comando. Che eseguono concerti naturali improvvisati, non rave, neanche flash mob, nemmeno stornelli. Io mi metto alla finestra e aspetto, cerco di incrociarli quando si posano per mangiare. Se cantano non batto le mani, mi incanto. E quando volan via sono contento per loro.
A cura di Massimo Leopardi
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